Culture

https://www.womenews.net/xxii-premio-di-scrittura-femminile-il-paese-delle-donne-bando-2021/

Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne” – Bando 2023 e precedenti edizioni

XXIV Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne”: entro il 15 luglio l’invio delle opere per partecipare all’edizione 2023La redazione 13 Maggio 2023 XXIV Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne”

Tutte le informazioni sul Premio di scrittura femminile, alla sua XXIV edizione, e le modalità per partecipare su womenews, Il Paese delle Donne – rivista alla pagina del Premio.

ACCOGLIENZA  (articolo di Gabriella Anselmi sul n.  211 della rivista settimanale online Vitamine vaganti)

 

Accoglienza, termine avvolgente, che esprime una modalità di relazione fra gli esseri viventi e non solo: capacità di creare empatia, di percepire ed accettare l’altro nella sua complessità che è un coacervo di bisogni, luci ed ombre, fragilità, ricchezza d’animo, talenti, saperi ….. Inoltre impone la pratica di un linguaggio lontano dalla violenza e dalla volgarità che invece sono contenute nel verbo rottamare.

Un’esperienza che amplia i nostri orizzonti, le nostre conoscenze, rende più forti, più consapevoli delle proprie potenzialità, più tolleranti anche verso se stessi.

Perché l’ “altro” è anche dentro di noi. Si tratta di quella moltitudine di personaggi che alberga, spesso ancora viva e vivace in noi e che si rimette in moto attraverso il ricordo, i link con l’attualità, le emozioni, le sensazioni, le percezioni, il vissuto del quotidiano. Alcuni mondi interni sono fra loro incommensurabili, ciò arricchisce e potenzia la capacità di comprendere, accettare, accogliere anche il diverso che si trova al di fuori di noi e che a volte arriva da luoghi altri.

L’emigrazione non ha le sue radici solo nella necessità di soddisfare i bisogni primari e quindi di allontanarsi dalle zone desertificate, dalle carestie, dalle situazioni di povertà, dalle zone di guerra.

A volte si parte, ci si allontana dal paese di origine anche per quel forte desiderio, oserei dire ansia di conoscenza, per avere più possibilità di realizzarsi negli studi, di poter lavorare nel pieno delle proprie capacità e competenze rapportandosi a chi vive in luoghi con cultura, lingua, religioni altre, rispetto a quelle praticate. Luoghi in cui, in molti casi, le due categorie filosofico - esistenziali dello spazio e del tempo sono percepite e vissute in modo diverso dal nostro.

Si va per ricercare il nucleo profondo che ci unisce agli altri: quei bisogni vitali ed affettivi che sono comuni a tutti. Chissà, quasi come in una eterna ricerca di sfidare e superare la paura della morte ma anche il Desiderio di riunirci alla nostra madre terra.

Sono stata una emigrante di …. lusso. Ho insegnato all’estero – dal Liceo all’Università - e sempre più mi sono resa conto che occorre essere accoglienti quando il proprio lavoro si svolge a contatto con l’universo scuola e con la complessità delle esperienze che si vivono giorno per giorno.

L’insegnamento e l’apprendimento possono avere risultati ottimi se si stabiliste un rapporto affettivamente fluido, di fiducia reciproca, di accoglienza e rispetto dei rispettivi ruoli. Questa modalità vige in qualunque luogo, con qualsiasi persona o gruppo di persone, purché si abbia la duttilità di rendersi conto, di comprendere ed accettare la realtà contingente nella quale si opera.

Forse, se non fossi stata capace di accogliere gli allievi italiani e non solo, non so come avrei potuto far loro superare i tanti tabù, i luoghi comuni ed il timore verso una disciplina creativamente razionale che spesso si intreccia con la filosofia e la ingloba, che possiede un profondo spessore culturale e applicativo, che necessita di rigore intellettuale, come la Matematica.

Nel mio rientro in Italia, a metà degli anni novanta, mi sono interessata attivamente del fenomeno migratorio nel nostro Paese e mi sono adoperata in un compito non facile, quello di cercare di far comprendere agli italiani come fossero diverse dalle nostre, le due categorie spazio tempo proprie di chi non è “occidentale”. Il tutto per spiegare, fra l’altro, da cosa dipendesse la cosiddetta lentezza nel modo di lavorare di tante persone provenienti da Paesi lontani.

Ho poi messo in moto le mie capacità e competenze nel formulare progetti di formazione. Ho così costituito, insieme ad altri, l’associazione culturale no profit “Ida Ferri” e presentato alla regione Lazio progetti che sono stati finanziati dal Fondo Sociale Europeo. Si è trattato anche della formazione per immigrate/i nel settore della moda: modellazione, taglio e cucito. Alla fine delle 500 ore di corso, le/gli allieve/i sono stati in grado di realizzare un capo femminile finito in tutte le sue parti comprese tasche, asole e bottoni, composto da gonna e giacca, entrambi foderati.

Si partiva dal modello in carta velina e poi ……. la sfilata finale il giorno dell’esame di fronte alla commissione composta da esperti della Regione, Provincia, Sindacati, Camera di commercio ecc. Indimenticabile trovarsi per tante ore insieme a qualche uomo e tante donne originarie di alcuni paesi africani e sudamericani con la carnagione che variava nelle diverse tonalità del marrone a partire dal nocciola, ed i loro abiti colorati, accompagnate da bimbi bellissimi dallo sguardo dolce e fiducioso. Ritornavo con la mente ai tre anni trascorsi a Tangeri fra gli studenti marocchini (98%) che mi “aiutavano” a comprendere la loro cultura, le loro abitudini, la condizione femminile, la realtà del quotidiano in un paese il cui capo politico era anche il capo religioso, la condizione del vivere. Un mio caro amico e collega mi ripeteva: “Qua devi fare la femminista. Capito?” Si riferiva alle donne marocchine che in pubblico mostravano solo gli occhi, la punta dei piedi e le mani, nel privato subivano…. Tante donne chiedevano di venire via.

Alcune loro compatriote erano fra le corsiste che negli anni successivi, riunite in cooperative, mettevano in pratica quanto appreso durante la formazione professionale. Erano diventate sarte esperte anche nella confezione degli abiti da cerimonia per le bambine. Per me, una grande emozione e soddisfazione.

Ma la consapevolezza dell’importanza di formulare progetti formativi per le cosiddette fasce deboli della popolazione, che dessero possibilità alle donne di inserirsi nel tessuto sociale e produttivo non si è mai sopita. Quindi, sedici anni fa quando entrai a far parte della FILDIS – Federazione Italiana Laureate e Diplomate Istituti Superiori - proposi ed elaborai un progetto, dedicato alle mamme dei bambini stranieri, per l’insegnamento dell’italiano: “La seconda lingua come veicolo di affettività”.

La FILDIS di Roma ha portato avanti il progetto. Ma un’altra iniziativa da me promossa e che credo sia degna di nota, è l’adozione a distanza di un maestro africano che almeno per un anno potesse garantire l’insegnamento giornaliero a 45 bambine/i orfane/i che vivevano in Uganda o in Tanzania.

Mi sembra che il mio percorso professionale ed umano abbia avuto come uno dei tanti fari anche quello dell’accoglienza che mi ha spinto ad impegnarmi non solo con gli immigrati residenti in Italia ma anche nei confronti delle loro famiglie ed amici lontani, e soprattutto dei loro figli che vogliono studiare e realizzare i loro progetti di autonomia, espressione dei loro talenti.

L’accoglienza fa parte della “struttura” delle donne, evidenziata dalla possibilità di generare. Spesso, purtroppo, soprattutto nel rapporto fra donne si registrano difficoltà di comprensione, atteggiamenti aggressivi che impediscono la collaborazione, l’empatia.

Ritengo che sarebbe necessario riflettere in modo serio ed approfondito sul rapporto fra donne senza enfatizzarlo ma esaminando le tante ombre oltre che le luci. Credo che di questo se ne potrebbe avvantaggiare l’umanità nel suo complesso.

https://youtu.be/SCZmdWXOgYYo

Le maestre dell’arte, di Livia Capasso, edito da Nemapress nel 2021, è una storia dell’arte al femminile, scritta con l’intento di riparare alla parzialità e alla distorsione presente nei manuali scolastici, per ridare alle artiste quella visibilità negata da pregiudizi e stereotipi, riconoscere una loro costante presenza, sottolinearne lo spirito di indipendenza e autonomia, la voglia di emergere, la caparbietà nell’affrontare le difficoltà, non ultime le loro innegabili qualità stilistiche.

I primi capitoli procedono più speditamente, data la scarsità di presenze femminili. Dal ‘700 in poi il numero delle artiste aumenta considerevolmente, così come aumentano le letterate, le filosofe, in quanto vengono meno tanti divieti. Nel Novecento, poi, la richiesta di partecipare alla vita politica, all’istruzione, si affianca al diritto di creare. Ma solo dagli anni Sessanta, Settanta del Novecento le donne, sulla spinta dei movimenti femministi, consapevolmente hanno rivendicato il loro posto accanto a quello degli uomini e sono entrate in massa nel mondo dell’arte, non solo come artiste, ma anche come critiche e collezioniste.

Su undici capitoli de Le maestre dell’arte gli ultimi sette (244 su 430 pagine) riguardano la presenza femminile nel campo della scultura, pittura, architettura del Novecento, e registrano un protagonismo femminile in tutti i settori della produzione artistica, e in tutte le aree geografiche, dalle grandi città di paesi sviluppati a realtà degradate di paesi dove regnano miseria e negazione di diritti civili. Ma la strada da percorrere per una piena visibilità e una parità di opportunità è ancora lunga, se ancora scarsa è la presenza femminile nei manuali scolastici, se nei musei c’è ancora una predominanza maschile, se per emergere devono dimostrare un talento eccezionale e a parità di valore guadagnano meno dei loro colleghi.

Percorsi di parità di genere nella scuola e nella …. vita.

 

Gabriella Anselmi

 

Per raggiungere l’obiettivo della parità di genere ed eliminare, superare i tanti ostacoli che via via si incontrano accorerebbe apprendere, fin dall’infanzia, ad andare di “pari passo” ed immaginare di percorrere un nastro di Moebius                      (!): superficie formata da una sola faccia, percorribile in tutta la sua configurazione - essenza, con continuità senza fratture nel passaggio fra l’interno e l’esterno, fra il pensiero e l’azione.

La scuola, prima “agenzia” di relazioni al di fuori della famiglia, permette di rapportarci in modo continuativo con gli altri da noi in una sorta di entrare ed uscire dai nostri pensieri dalla nostra realtà. Quindi occorre riconoscere l’importanza fondamentale che la scuola dell’obbligo ricopre per ciascuna persona, tenendo conto anche del lavoro certosino di tutto il personale che vi opera. Ecco che la Scuola come il Nastro di Moebius, nel riconoscere a ragazzi e ragazze di essere “Radici di un contesto” diventa innovativa in quanto rafforza nelle giovani generazioni, la consapevolezza di appartenere ad un luogo, di essere parte attiva e fattiva della società, della Cultura. Solo forti e “pieni” di noi stessi, a contatto con il nostro sé profondo, potremo incontrare e capire l'altro da noi, riconoscerlo, rispettarlo, essere cittadine e cittadini del mondo. Non perdere mai di vista l’importanza di essere riconoscenti verso noi stessi e l’altro da noi. Occorre prendere atto dell’importanza fondamentale che la scuola dell’obbligo ricopre per ciascuna persona, tenendo conto anche del lavoro certosino di tutto il personale che vi opera. 

In particolare, considero opportuno sottolineare l’impegno complesso e delicato dei docenti, chiamati a “creare”, sollecitare, sostenere e potenziare un rapporto educativo empatico, affettivo, equilibrato, colmo di motivazioni, di fiducia e rispetto reciproci con allieve ed allievi, con le loro famiglie, con tutto le figure professionali che operano all’interno della scuola ed anche con le istituzioni, con il territorio e le sue molteplici peculiarità, realtà lavorative, presenza di persone di nazionalità e culture diverse dalla nostra. Ma anche la necessità, come impegno sociale sostanziale, di recuperare sia quei territori e le periferie cittadine, in parte entrambi abbandonati, sia le competenze di fette consistenti della popolazione al fine di rivitalizzare il territorio stesso ed essere volano nel recupero delle radici e dei rapporti fra tutti i soggetti della comunità.

L’obiettivo precipuo per il corpo docente è quello di aiutare allieve ed allievi a far emergere, evolvere, potenziare, motivare e sedimentare le capacità critiche di analisi e di sintesi in tutte le fasce del percorso educativo.

Tali capacità potranno contribuire alla formazione di uomini e donne responsabili con pari dignità e diritti verso sé stessi e la comunità. Soggetti politici attivi e fattivi.

Che fare? Come agire?

È necessario considerare la Scuola come comunità educante, come fulcro, come crocevia, luogo di incontro e di confronto fra soggetti diversi. Un luogo carico di motivazioni, emozioni, riflessioni, pensieri, saperi, cultura.  Non dobbiamo mai permettere che la Scuola venga etichettata responsabile delle storture della società, della mala-educazione, di un sistema di potere basato sul profitto. Altre sono le realtà dove indagare!

Il nostro lavoro ed impegno come docenti è troppo spesso bistrattato, sottovalutato, soggetto a stereotipi e pregiudizi. Impegniamoci in modo certosino, sistematico ad evidenziarli e …. smontarli giorno dopo giorno senza stancarci mai! 

Dobbiamo essere compatti nel rivendicare l’orgoglio dell’appartenenza alla comunità educante e la necessità e urgenza di lottare soprattutto contro i luoghi comuni che possono colpire e penalizzare bambine e bambini, donne e uomini in particolare quando bersagliano le loro capacità intellettuali, la loro emotività, i loro talenti, la loro identità. Perché la violenza psicologica è sottile, permane indelebile nella memoria, penetra profondamente nella mente e nei cuori come un lungo ago da materassaio. 

La Scuola, soprattutto, quella dell’obbligo, ma non solo, è una miniera di potenzialità e talenti che dovrebbero emergere e diventare consapevolezza in ciascuna e ciascuno di noi, allieve/i e docenti. Abbiamo sempre qualcosa da scoprire, di cui appassionarci in ogni periodo e occasione del nostro vivere.

Ecco che la didattica - Scienza e Arte – ci aiuta a comprendere, rispettare, collaborare alla crescita individuale di ogni attore. Ma la didattica si evolve e perfeziona nel tempo anche attraverso:

·       l’attenzione puntuale e costante ai propri comportamenti, alla qualità dei rapporti interpersonali per evitare di corroderli e distruggerli, all’uso non discriminatorio del linguaggio;

·       un atteggiamento non giudicante;

·       il metodo di lavoro puntuale e perfettibile, consapevoli dei bisogni, delle esigenze, delle aspettative del gruppo con cui ci si interfaccia;

·       la scelta attenta ed oculata, non discriminatoria, delle tematiche oggetto di studio;

·       l’uso e non abuso delle tecnologie sempre in via di sviluppo;

·       l’attenzione agli algoritmi, all’intelligenza artificiale;

·       le modalità di verifica dell’acquisizione dei contenuti; 

·       la raccolta del materiale via via prodotto per poter mantenere viva la memoria del percorso educativo;

·       la valutazione.

Quest’ultimo punto costituisce un tema molto importante che merita il confronto puntuale, sistematico fra docenti. Donne e uomini che esercitano uno fra i “mestieri” più belli del mondo, rivolto all’intera umanità, un “mestiere” difficile, faticoso, di grande responsabilità ma dove, il rapporto fra docente e discente che alimenta la linfa vitale, intellettuale, culturale, può gratificare il corpo docente e non solo. Infatti, tale rapporto risulta utile, a volte indispensabile ad allieve ed allievi, per attuare scelte  professionali e lavorative responsabili nei settori più disparati del sapere. La/il docente, anche inconsapevolmente, può assumere nell’immaginario di allieve ed allievi la funzione di Mentore. Del resto, l’attività di mentoring potrebbe essere connessa a quella della docenza. Apre la strada all’acquisizione della consapevolezza di chi siamo e quale professione desideriamo esercitare nell’immediato e, chissà, proseguire nel futuro.

Siamo infatti consapevoli che Il lavoro è fondamentale, un diritto inalienabile per qualsiasi persona in quanto mette in evidenza il proprio sé profondo, l’assertività, l’autonomia, l’autostima sia nel giudicare che rispetto ai bisogni primari, permette di evitare la dipendenza affettiva ed economica coatta dagli altri, agevola il raggiungimento di una reale ed effettiva parità di genere e pienezza del proprio essere, del proprio vissuto. 

La parità di genere e di opportunità, la scuola, il territorio sono tra loro interconnessi e via via si possono evidenziare le varie connessioni fra loro e con ciascun Goal dei 17 dell’Agenda ONU 2030 – ASviS – Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile.

Soprattutto in questo periodo in cui sembra che la velocità sia premiante, desidero mettere in evidenza che l’insegnamento e l’apprendimento hanno tempi comparabili con quelli del nostro sistema corporeo, non con quelli di propagazione di un lampo o di un suono. La spiegazione e l’assimilazione di un concetto a volte necessitano ore ed anche giorni per essere “digeriti”!

La pazienza vigile è necessaria e vincente nell’arte di educare tutte e tutti indistintamente. È importante, fondamentale prevedere gruppi di lavoro fra docenti della stessa area disciplinare e non solo. Il lavoro di gruppo fra docenti attraverso riunioni programmate è utile per raccordare il percorso didattico ed il metodo di lavoro da utilizzare.

Non dobbiamo mai perdere di vista che la scuola pubblica, la sanità pubblica e la pubblica amministrazione costituiscono tre pilastri portanti di una democrazia compiuta. Quindi, è soprattutto a questi settori, a prevalenza femminile, che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione e seguirli da vicino per rendere operativo il rispetto dei percorsi democratici nelle selezioni, nella progressione delle carriere, nelle modalità connesse all’esercizio delle loro funzioni, nella parità sostanziale inclusa quella economica.

Ribadisco con forza che è necessario, indispensabile evitare l’uso sia degli stereotipi perché possono condizionare pesantemente il percorso vitale di donne e uomini, sia dei pregiudizi in quanto limitano l’educazione e le possibili, auspicabili scelte professionali che possono via via mettersi in evidenza nel corso degli studi. 

La lotta ai pregiudizi nelle scuole, nell’ambito familiare, in tutti i luoghi di lavoro e di svago costituisce un prerequisito per costruire un ambiente inclusivo delle relazioni interpersonali, per raggiungere una sostanziale parità di genere che si esplicita anche nell’uso non sessista del linguaggio.

Nel processo educativo vanno sempre considerate con precisa priorità le radici profonde di ciascuna persona, legate ai luoghi e alla cultura della prima infanzia. Realtà spesso molto diverse da soggetto a soggetto, che costituiscono il bagaglio prezioso di ciascuna persona all’interno della scuola e della comunità tutta, un ponte determinante per l’equilibrio psico-fisico fra passato e futuro,

Ecco che la Scuola come il Nastro di Moebius, nel riconoscere a ragazzi e ragazze di essere “Radici di un contesto” diventa innovativa in quanto rafforza nelle giovani generazioni, la consapevolezza di appartenere ad un luogo, di essere parte attiva e fattiva della società, della Cultura. Solo forti e “pieni” di noi stessi, a contatto con il nostro sé profondo, potremo incontrare e capire l'altro da noi, riconoscerlo, rispettarlo, essere cittadine e cittadini del mondo. Non perdere mai di vista l’importanza di essere riconoscenti verso noi stessi e l’altro da noi.

(1)Nastro di Moebius: superficie il cui studio è alla base della Topologia una delle branche più importanti della matematica moderna. Formata da una sola faccia, percorribile in tutta la sua configurazione - essenza, con continuità senza fratture. Una superficie rigata non orientabile, utilizzata nei più svariati settori del sapere: dalla fisica moderna alle applicazioni tecnologiche, alla medicina, all’arte, allo studio dei luoghi, della conformazione e delle caratteristiche del paesaggio e del suolo. Si allegano varie immagini del Nastro e delle sue applicazioni.

 

Intervista di Gabriella Anselmi a Fiorenza Taricone autrice del Manuale di pensiero politico e questione femminile (Aracne, 2022).

 

Il manuale, uscito da pochi mesi, unico nel suo genere, ha suscitato in me molto interesse, curiosità, e anche una impercettibile ansia rispetto alle tensioni, al dispotismo, alle repressioni, alla sopraffazione, ai diritti negati; insieme, anche infuso speranza nel superamento del buio, nella capacità di "resurrezione". Il Manuale restituisce alla conoscenza di donne e uomini un “elenco dei nomi” puntuale, esaustivo, una ricca bibliografia con un indice molto bene articolato. Il tutto permette di orientarsi nella lettura e soprattutto rilettura ed offre una notevole serie di possibilità per approfondimenti successivi.

 

D: Quali sono le voci e i tempi principali presenti nel Manuale?

 

R: Il libro inizia con il ‘600 secolo del contrattualismo, cioè la nascita di una società politica mediante un contratto sottoscritto verbalmente o tacitamente fra uomini liberi e uguali che per vari scopi, primi fra tutti, cercare protezione e difendere le loro proprietà, affidano la vita e la libertà ad un potere sovrano. Il contrattualismo, ideato e teorizzato da pensatori, giuristi, filosofi, ha il nome di contrattualismo, da cui originano successivamente le società liberali e democratiche, e sancisce fin dal suo nascere l’esclusione femminile. Le donne non sottoscrivono nessun contratto, sono considerate solo all’interno della famiglia e siglano solo un cosiddetto contratto sessuale, che è quello di soggezione al marito-padrone. Come incipit, mi sembra chiaro. Poi, il dialogo dei due generi prosegue con i nomi femminili di Mary Astell che risponde al liberale Locke, di Olympe de Gouges con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, di Mary Wollstonecraft, per il Settecento, per proseguire con le autrici della Dichiarazione dei sentimenti americana, e per l’Ottocento con nomi piuttosto sconosciuti direi, come la prima italiana che fa osservazioni critiche al comunismo nascente. Le figure femminili sono tante, e messe insieme fanno capire chiaramente che a noi è arrivato finora solo un racconto politico monocorde. 

 

D: Mi sembra che tu, attraverso un lavoro certosino, encomiabile di ricerca durato più di venti anni, abbia raggiunto in modo organico l’obiettivo di far emergere che il pensiero politico è stato anche appannaggio delle donne e non riservato agli uomini. Perché allora è stato necessario citare nel titolo: questione femminile? Mi addolora ed indigna il fatto di far parte di una "questione" ossia costituire un problema.

 

R: Perché la questione femminile esiste da quando se ne ha piena consapevolezza, cioè da molti secoli, ed esiste ancora; la storia non è lineare e notoriamente, passare dall’essere la femmina del maschio alla soggettività autonoma dell’essere donna, è stato un processo millenario non ancora concluso, anzi, per molta parte del mondo ancora agli inizi. L’avverbio che ho usato però, notoriamente, riguarda molto meno le giovani di prima e seconda generazione rispetto al neofemminismo degli anni Settanta, che, per un insieme di fattori, ignorano o sottovalutano le tappe sofferte di questo processo; comunque lo si voglia chiamare, emancipazione e/o liberazione, ha comportato lotte, prese di posizione, scelte, rinunce, finalizzazione delle proprie esistenze, anche solo impegnate a porsi interrogativi di non poco conto. Per un sesso considerato solo tale, eternamente minorenne tranne che per fare figli e lavorare, diventare finalmente un problema e non un ciclo naturale eternamente uguale a sé stesso, per quanto paradossale ha rappresentato una conquista. La prima legge contro la violenza sessuale in Italia del 1996, che ha impiegato venti anni prima di arrivare in porto, per cui il reato non era più contro la morale ma contro la persona, è un tassello evidente di questa crescita: non più cosa, ma persona, con tutto il carico di responsabilità e chiaroscuri che questo comporta. Il Manuale che pone sotto gli occhi delle lettrici e lettori quasi con un’irruzione, scrittrici e pensatrici politiche finora non considerate tali perché la politica è stata una cittadella a lungo inespugnata, rende evidente la problematizzazione; perché escluse fino alla conquista dei diritti politici? Quale è stata la modalità femminile di essere comunque un soggetto politico? Di quali limiti hanno sofferto nella produzione scritta e orale, circoscritta a pochi generi di produzione culturale? Si sono auto ghettizzate?

 

D: Ritieni possibile che le battaglie femministe del XX e XXI secolo e successivi potranno risolvere il tema?

 

R: Per fortuna la storia che, come ho detto, non ha un percorso lineare, non conosce però neanche l’immobilismo. Il femminismo ha avuto e ha i tratti di una rivoluzione permanente, come dico spesso “grondante poco sangue ma molti frutti”. È rivoluzionario proprio perché dopo la fase di piazza, di protesta, di mobilitazione collettiva è diventato anche quello che è stato chiamato femminismo diffuso, il che non ha significato una regressione o un declino, ma piuttosto la sedimentazione nelle coscienze. Le criticità sono nella trasmissione generazionale, che è sempre stato un problema non solo per il femminismo, ma per tutte le manifestazioni collettive. Quando ho proposto l’istituzionalizzazione delle discipline di genere nelle Università, iniziando alla fine degli anni Ottanta, e ho scritto ora questo Manuale, intendo questo: costruire una eredità collettiva d saperi non più casuale, ma obbligatoria nei percorsi del sapere. Non può essere facoltativo conoscere cosa è accaduto nella società civile e politica rispetto alla differenza di genere o come sarebbe più esatto dire, rispetto alle differenze fra i tanti generi.

 

D: Sarebbe forse opportuno fare riferimento alla psicanalisi per comprendere come si “costruisce” l’identità di una persona e riflettere sulle differenze di genere? Tutto questo appartiene al pensiero politico?

 

R: La scoperta dell’inconscio ha rivoluzionato il mondo novecentesco; sarebbe difficile pensare che tutto questo non abbia avuto un effetto sulle coscienze e sull’agire individuale e collettivo; ovviamente questo non si è tradotto immediatamente in leggi e incarichi politici, ma la presenza della psicanalisi è del tutto evidente nel neofemminismo degli anni Settanta. Fra i numerosi collettivi che hanno reso il femminismo unico nelle sue modalità partecipative e riflessive, uno si chiamava Collettivo Pratica dell’inconscio, che esaminava anche il rapporto con la madre. Cito, per fare un esempio: “i sogni e le fantasie che si celano dietro la diffusa resistenza delle donne al femminismo meriterebbero maggior riconoscimento politico … la nuova familiarità che si crea in un gruppo tra le donne che ne fanno parte riattiva e rimette in gioco il rapporto della bambina con la madre. Questa intricata vicenda di amore-odio, desiderio-aggressività si preannuncia nelle esitazioni che accompagnano per molte l’approccio al femminismo ... così l’aggressività che è il nemico interno più resistente agli sforzi unitari delle donne negata o ridotta esclusivamente alla violenza che altri fanno alle donne, sfugge per intero al processo di analisi politica”.

 




L’UMILIAZIONE: CAUSA O CONCAUSA DEI CONFLITTI?

 

“L’introspezione è un’attività che sta scomparendo.

Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato, invece di raccogliere i pensieri controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno, da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro.”

 

Zygmunt Bauman

 


L’invito di Bauman all’introspezione può aiutarci a ragionare e riflettere sul tema: Le Donne e la Guerra, che costituisce un binomio importante e molto impegnativo da trattare. Lo dobbiamo affrontare per evitare di ignorare quali possano essere nel tempo le conseguenze dell'agire, a volte sconsiderato, nel pubblico e privato, sottovalutandone le conseguenze troppo spesso tragiche, devastanti. Dobbiamo allenarci a prevedere i disastri per contenere i danni.

È necessario non cessare mai di apprendere dalla storia, anche dalla nostra. Entrambe da ripercorrere, valutare, studiare e ristudiare, mantenendo attive le capacità critiche di analisi e di sintesi per comprendere a 360 gradi le motivazioni di tutto quanto accade nell’oggi per agire e proiettarsi nel futuro in modo consapevole, con animo e spirito "laico".

Penso che noi donne, per la specificità del nostro "essere", siamo necessarie, preziose, indispensabili per ricoprire ruoli istituzionali senza omologarci a modalità che non ci sono proprie, o non dovrebbero esserci proprie, nella gestione responsabile, equilibrata ed attenta del potere. A noi appartiene la pratica sia dell’accoglienza che dell’ascolto e della condivisione nel reciproco rispetto, nel riconoscimento del proprio valore e di quello delle altre e degli altri.

BASTA GUERRE! Occorre affermarlo con determinazione sempre e comunque e non solo perché nelle attuali guerre, il nucleare incombe sulle nostre teste, con conseguenze drammatiche, devastanti per il genere umano in particolare per le donne che sono portatrici di “vita”.

È imprescindibile chiederci da dove nascono i conflitti che possono degenerare in guerre locali e mondiali, disintegrare intere popolazioni con un proliferare di clan antagonisti tra loro. Non mancano gli esempi! Il “denaro”, comunque declinato, l’appropriazione dei beni altrui possono rappresentare il denominatore comune dei confitti. A volte, mi sembra che fra gli uomini predomini una sorta di delirio di onnipotenza che purtroppo riscuote molto successo in un’ampia moltitudine di essere umani.

Ogni persona può dirsi contraria o favorevole al conflitto in atto, ma la dialettica, anche serrata, ed il rispetto delle posizioni politiche deve valere per tutti e tutte. La diplomazia, praticata nel modo dovuto, deve essere sempre presente per evitare degenerazioni. A volte, purtroppo, assistiamo ad una sorta di tifo da stadio che ci ricorda il derby, perdiamo il senso della misura, scatta l’aggressività, la violenza.

Sembra che la guerra, potenza del male in assoluto, ci attragga senza renderci conto che fa emergere sentimenti e pulsioni profonde che si possono ritrovare anche nei rapporti affettivi interpersonali contribuendo a corroderli e distruggerli

Fra questi vorrei sottolineare l’umiliazione verso l’altro da sé, chiunque esso sia, con le possibili drammatiche conseguenze che ne potrebbero derivare. Forse la sua fonte potrebbe essere ravvisata in una sorta di invidia o volontà di sopraffazione, annientamento nei confronti nel soggetto da umiliare nel quale, come conseguenza, si potrebbe palesare il desiderio di vendetta. In questo modo si innesca una specie di reazione a catena incontrollata le cui conseguenze potrebbero essere comparabili a quelle generate dalle due bombe atomiche sganciate sul Giappone. 

In qualsiasi situazione sarebbe opportuno allenarci ad una resistenza che non è quella di metterci anima e corpo dalla parte cosiddetta debole (sarà vero?) magari fornendo armi e/o perpetrando diffamazione nei confronti dell’”avversaria/o” ma resistere alla voglia di gettarci nella mischia perdendo il cosiddetto lume della ragione.

Dobbiamo soffermarci con estrema attenzione, equilibrio e capacità critiche sui comportamenti umilianti che possono dare adito a conseguenze gravi e devastanti all’interno del nostro vissuto, nelle controversie belliche e di qualsiasi altro tipo.

Noi donne siamo troppo spesso oggetto di umiliazioni forti e profonde, evidenziate nell’uso massiccio degli stereotipi, ma anche nel dover chiedere e richiedere, diventando petulanti, ciò che ci spetta di diritto, sancito dalla Costituzione Italiana, previsto dalle leggi esistenti. Costrette per lo più al volontariato se vogliamo esprimere le nostre capacità, le nostre competenze professionali, culturali e tanto altro!  

Per quanto riguarda gli stereotipi, in particolare, mi interessa segnalare quello, ripetuto quasi come un mantra, della incapacità e mancanza di predisposizione delle donne nell’applicarsi ed impegnarsi in modo serio, consapevole e creativo nello studio delle discipline scientifiche. Non corrisponde assolutamente alla verità, alla realtà. 

Ribadisco la necessità fondamentale e l’urgenza dell’uso attento e puntuale del linguaggio altrimenti le ferite profonde, il più delle volte insanabili, inferte a donne ed anche uomini possono produrre conseguenze negative imprevedibili e devastanti per sé e per gli altri.

Gabriella Anselmi


Newsletter n. 252 dell'11 marzo 2022               www.chiesadituttichiesadeipoveri.it


APOLOGIA DELLA GUERRA



Carissimi,

Dopo sedici giorni di guerra si fanno rare le speranze (ma spes contra spem bisogna sempre sperare) di un’uscita non catastrofica dalla crisi per il futuro del mondo. Vince il più forte: ma il più forte non è la Russia, perché il suo Nemico non è l’Ucraina, ma sono gli Stati Uniti e il rapporto di potenza (secondo i dati del SIPRI) è di 66 miliardi e 838 milioni di dollari di spesa militare della Russia contro 766 miliardi degli Stati Uniti, 1.103 miliardi di tutta la NATO mentre alla Germania si consente di superare il vincolo del 2 per cento del PIL che le era stato imposto dopo Hitler. La vera guerra che si sta combattendo è infatti tra queste Potenze e a vincere è la vittima creata da loro, l’Ucraina, che si è sentita la più forte grazie alla solidarietà che le è stata offerta da tutti; ma questa, abilmente gestita dal complesso militare-mediatico dell’Occidente e dall’esperto regista e attore televisivo che dell’Ucraina è diventato il presidente, si è risolta in una unanimità violenta che ha eletto la Russia come unico Nemico. Il crimine di guerra (la guerra come crimine) commesso da Putin passando il Rubicone dei confini con l’Ucraina, anche se per impedirle di installarvi la NATO, si è ritorto contro di lui, che non ha capito come in tal modo avrebbe fatto scattare una facile identificazione con il più debole aggredito, da parte degli attori non protagonisti del dramma e di tutti gli spettatori che lo fanno a buon mercato. “Gli ucraini combattono anche per noi”, titola il Corriere della Sera riprendendo la teoria del domino che fu usata dagli Stati Uniti per esaltare la guerra del Vietnam che insieme al dittatore golpista di Saigon dicevano di combattere per evitare che, Stato dopo Stato, tutto il mondo diventasse comunista; l’identificazione sollecitata dal giornale milanese non è peraltro solo con le vittime, ma con i “coraggiosi combattenti” che al posto nostro riscattano “il pacifismo istintivo, puerile, miope, ipocrita, egoista” al quale si sarebbe ridotto l’Occidente europeo che ha “smarrito il senso della lotta” e se ne sta seduto a guardare la televisione. Un’apologia della guerra in piena regola.

Tutto ciò avviene nel quadro di una guerra mondiale virtuale (“a pezzi” come da tempo diagnosticata dal Papa) giunta sulla soglia di diventare reale e totale. Questo rischio è all’origine del panico e del coinvolgimento generale che, al di là delle propagande, questa guerra suscita nell’opinione pubblica, al contrario di quanto fanno o hanno fatto altre guerre trascurate o ignorate nelle quali altre vittime sono sacrificate, e piangono e soffrono, altri bambini si perdono, popoli negati combattono - ci voleva un generale, Mini, per ricordarcelo – e altre guerre provocano fuggiaschi e profughi poi discriminati e respinti non meno di questa.

Questo rischio è stato spregiudicatamente assunto come se si fosse giunti al giudizio finale nel conflitto apertosi dopo la guerra fredda per decidere l’assetto del potere nel futuro del mondo. L’Ucraina ha rivendicato la libertà di mettercisi in mezzo per prima, gli Stati Uniti hanno deciso di approfittarne e di correre questo rischio perché paradossalmente hanno fatto conto sul fatto che Putin, da loro definito “un killer” e dagli altri considerato pazzo, riesumatore dell’Unione Sovietica e uno zar aspirante al trono di Pietro il Grande, sarebbe stato tuttavia ancora umano e non avrebbe fatto ricorso all’arma nucleare. Speriamo che così sia. Ma il rischio è che l’uscita dalla guerra in corso sia comunque catastrofica, se non per l’uso della bomba, perché il dominio del vincitore estendendosi a tutto il mondo (chi non ricorda il progetto del “nuovo secolo americano”?) per lungo tempo impedirebbe la pace e la giustizia sulla terra, che è anche l’ultimo tempo utile per salvarla scongiurandone il collasso politico, climatico e ambientale.

Ma, appunto, “speriamo contro ogni speranza”, secondo il detto paolino ripreso da La Pira per auspicare da Firenze, dopo l’elezione di papa Giovanni, un futuro di pace e fraternità ecumenica per tutto il mondo.

Nel sito pubblichiamo il grido di dolore di papa Francesco all’”Angelus”, un articolo sull’impatto delle sanzioni sulle persone più deboli e un altro che illustra precedenti e conseguenze della guerra in Ucraina.

      ALEF _LIBRI & VISIONI

 


FIORENZA TARICONE
POLITICA E CITTADINANZA. DONNE SOCIALISTE TRA OTTOCENTO E NOVECENTO -
Collana della Fondazione F.Turati - Franco Angeli Editore


Gabriella Anselmi ne parla con l'Autrice, 30 maggio 2020 


Gabriella Anselmi. Il tuo libro, cara Fiorenza, a mio avviso è molto interessante da legge perchè colma alcuni vuoti. Fra questi, il riconoscimento e la riconoscenza che si dovevano alle tante donne “oscurate dalla storia”. Donne che dalla fine dell’Ottocento si sono impegnate nelle lotte politiche, sindacali, sociali e molto spesso anche fra le mura domestiche; sono state determinanti durante il periodo drammatico della Prima guerra mondiale, hanno dovuto sopportare la negazione del voto politico, l’avvento del fascismo che le voleva soprattutto madri e che nel ’27 dimezzò i loro salari, ma non hanno mai ceduto, le troviamo in prima fila nella Resistenza. Finalmente nel 1946 è arrivato il voto, faticosamente ... “lottato”. Noi dobbiamo moltissimo a queste primogenitrici della politica e tu lo ricordi con la tua approfondita e ricca ricerca. Non pensi che forse dovremmo esaminare in modo più elogiativo i risultati seppur parziali che noi abbiamo ottenuto e stiamo faticosamente difendendo con l’obiettivo di raggiungere la parità sostanziale di genere?

Fiorenza Taricone. Avvicinarsi a questa storia, oltre che proseguire il mio consueto lavoro di ricerca, è stato preliminarmente un gesto di gratitudine, che non elimina eventuali dissensi o lo spirito critico, ma dà spazio a un’inevitabile riconoscenza per le socialiste della prim’ora; riesce difficile immaginarlo, ma non erano neppure così poche! Purtroppo, paradossalmente, nell’era delle immagini, non possiamo a volte neppure vederle nitidamente ritratte, per la scarsezza delle foto, la qualità delle immagini, e magari la loro voglia di farsi ritrarre.
Come hanno sottolineato prima di me, nella storia politica e aggiungo nella storia delle relazioni fra i generi, bisogna guardarsi dal pericolo dell’evidenza. Penso sia ormai assodato che l’approccio simbolico, reale, linguistico delle donne alla politica sia stato abissalmente diverso da quello maschile. Dalla polis greca con la sua concezione di un demos maschile ad escludendum, che comprendeva cioè solo greci puri, né barbari, né schiavi, né donne, passando attraverso l’arengo medioevale, embrionale parlamento, dove anche gli ecclesiastici, pur non essendo laici, potevano partecipare, fino alle corti rinascimentali, le donne hanno assicurato la riproduzione della specie della cittadinanza, ma loro non lo erano. Le rivoluzioni settecentesche certamente sono state fondamentali, quella francese con il diritto per le donne – presto rimangiato – di parlare di politica, con la Dichiarazione dei diritti della cittadina e quella americana, da cui è scaturita più di mezzo secolo dopo la Dichiarazione dei sentimenti; per l’Italia però la periodizzazione è stata diversa e ha intersecato altre vicende.
Le donne hanno dovuto lottare per l’unità e conquistare l’alfabetizzazione, per poter interloquire con lo Stato e avanzare richieste; ma il risultato è stato comunque l’essere apolidi in patria. Le primogenitrici di cui mi occupo da molti anni, le socialiste di partito e di area, imparano dunque tutto assai presto, perché le Società operaie o di Mutuo soccorso nascono già nella seconda metà dell’Ottocento; le lavoratrici devono capire subito la differenza fra il precedente schieramento parlamentare e il nascente partito, quello socialista, nato nel 1892, preceduto dal Partito Operaio Italiano, quel partito dalle mani callose che parlava già di suffragio veramente universale; bisognava quindi afferrare velocemente cos’era un nascente partito di massa, il linguaggio della politica, le esigenze della propaganda e dell’organizzazione, la vita delle sezioni; ma anche, e non era di poco conto, pensare a come accorciare la distanza dalle proprie simili non ancora consapevoli di essere sfruttate due volte, in casa e in fabbrica.
È qui uno dei pericoli dell’evidenza: la questione sociale, lo sfruttamento operaio, le lotte di classe, la ribellione politica, tutto sembra succedersi in modo naturale e scontato nei libri di storia. Ma per le donne non è stato così automatico; come dici nella domanda, hanno affrontato lotte nei luoghi di lavoro, ma anche in casa perché i compagni spesso non volevano la rivoluzione in famiglia. Come diceva già il deputato femminista Salvatore Morelli nella seconda metà dell’Ottocento, si preferiva essere conservatori in casa e rivoluzionari fuori. La casa era il luogo del riposo dalle fatiche del lavoro e della politica. Che cosa sarebbe accaduto se anche le donne si fossero messe a frequentare le sezioni, a fare tardi nelle riunioni e – peggio ancora – a seguire i congressi socialisti per il mondo?
Affascinante la morale nuova propugnata dai socialisti, divorzio o libero amore, fine dell’ipocrisia borghese, coscienza politica, ma senza poter controllare le nascite e avere un salario pari a quello maschile sufficiente a sopravvivere, come conciliare gli orizzonti di libertà con i ruoli di moglie e di madre?
Per le donne avere una coscienza politica fu un processo doppio, perché aprirono anche gli occhi sul loro sesso e questo dischiuse un ulteriore interrogativo, simile a quello che si verificò negli anni Settanta del Novecento. Infatti, la vittoria del proletariato non risolveva automaticamente i tanti problemi legati alla condizione femminile e la specifica oppressione di classe talvolta non andava per niente d’accordo con una oppressione di sesso.
Le donne che ho studiato, cui ho dato voce nel libro sono state quindi primogenitrici anche in questo senso, rivoluzionarie e riformiste, scandalose e ribelli, ortodosse ed equilibriste. Conoscerle da vicino significa anche capire che i tempi lunghi della storia hanno un loro senso e un loro ritmo; per cambiare senza tornare sui propri passi abbiamo bisogno di sapere i sentieri percorsi da tante prima di noi.

G.A. Mi ha molto incuriosito la figura di Teresa Labriola, alla quale tu hai dedicato particolare cura e diverse pubblicazioni. Vorrei sapere se i due saggi su guerra e cultura possono allacciarsi alla situazione attuale

F.T. La mia biografia su Teresa Labriola risale al 1994; era la secondogenita del filosofo Antonio Labriola, lo ricordo perché tuttora mi chiedono se era la figlia di Antonio o di Arturo, deputato socialista; al filosofo Labriola si deve la diffusione del pensiero marxista in Italia anche dalle aule universitarie. Teresa era la secondogenita, molto amata dal padre che aveva intravisto in lei particolari qualità intellettuali. In effetti non si sbagliava, perché fu la prima donna laureata in giurisprudenza all’Università Sapienza di Roma alla fine dell’Ottocento. Poliglotta, è stata libera docente in Filosofia del diritto e come ci ricordano le lettere fra Antonio Labriola e Benedetto Croce, allora suo allievo, il primo giorno di lezione fu interrotto dagli schiamazzi degli studenti che protestavano contro una docente in gonnella; Teresa tentò per anni di vincere stabilmente una cattedra universitaria, ma le furono sempre preferiti altri studiosi; dopo aver insegnato per dieci anni, dal 1900 al 1911 circa, Filosofia del diritto prese la decisione di iscriversi all’Ordine degli avvocati, ma la sua iscrizione fu presto impugnata e il caso rimbalzò in Parlamento. Solo con la cosiddetta legge Sacchi nel 1919 le donne furono ammesse alle professioni liberali, ma a quel tempo Teresa Labriola aveva già preso altre strade.
Fu molto attiva nell’associazionismo femminile, in particolare nel Consiglio Nazionale Donne italiane dove presiedeva la Sezione giuridica; intervenne con numerosi scritti e articoli nell’intento di mutare gli articoli del Codice civile e penale che rendevano le donne più simili a schiave e a oggetti, che non a persone; Teresa condivise le idee paterne fino alla sua morte, ma dopo cominciò un percorso intellettuale che la condusse attraverso il nazionalismo ad appoggiare il fascismo. Durante la guerra, la lontananza dalle ex compagne socialiste non poteva essere maggiore, anche nel caso di quelle che giustificavano la guerra come un interventismo democratico, cioè un completamento delle guerre risorgimentali e l’irredentismo. Nonostante Teresa Labriola avesse una madre tedesca, riteneva che l’Italia dovesse cessare di essere una provincia dell’impero germanico; doveva impegnarsi invece nel formare una coscienza nazionale granitica. La guerra era per lei indice di accentramento di energie; in essa, uomini e donne dimostravano uno spirito individuale, ma non particolaristico; il pacifismo, compreso quello delle sue compagne di un tempo, dimostrava di non capire il conflitto a causa dell’ignoranza della storia del mondo nella sua fase più recente; mancava la coscienza di un fatto reale quale quello della Germania che si sentiva superatrice della romanità; la guerra portava un ordine nuovo, nel quale le donne sarebbero state come gli uomini produttrici e legate allo Stato da un vincolo etico. I riferimenti alla situazione attuale sono ancora molti: è vivo e vegeto il pacifismo intransigente come quello delle donne socialiste di allora, ma è altrettanto viva la volontà di potenza di molti Stati; ovviamente lo scontro diretto non è più fra Italia e Germania, che sono state insieme ad altre quattro nazioni fondatrici della cosiddetta “piccola Europa a sei”, ma con i Paesi animati da una volontà di supremazia; ne è una riprova lo scontro all’interno dell’Europa fra Stati sovranisti e aggressivi, e Stati convinti che per far parte di una comunità si debba alienare una parte di sovranità per il progresso collettivo.

G.A. A tuo avviso, è possibile individuare, attraverso la storia, il motivo per il quale le donne non riescono a raggiungere l’agognata parità di genere. Qual è il desiderio profondo che alberga e che forse è un non detto?

F.T. A partire dall’associazionismo politico di cui parlo nel libro, nel quale ricomprendo le sezioni, i circoli di partito, le sedi sindacali, le Camere del Lavoro e le redazioni dei giornali, fino al neo femminismo degli anni Settanta, la parità che non annullasse le diversità è stato l’obiettivo principale. Sostenere che le lotte sono state infruttuose sarebbe un’affermazione fuori dalla storia; cambiamenti dentro e fuori per le donne ce ne sono stati tanti e ben palpabili; lo sono stati, però, anche i retaggi, tant’è che troviamo ancora delle somiglianze con alcune situazioni del passato.
Del resto, nell’Occidente, dall’era cristiana in poi, il cosiddetto patriarcato come specifica forma di oppressione maschile ha avuto secoli e secoli per consolidarsi. Storicamente si può dire che sia sempre esistita una misoginia maschile verso le donne, e quella femminile esisteva come riflesso di quella maschile nella mente di una donna. La misoginia patriarcale ha perciò rappresentato il necessario bersaglio critico di molta parte dell’emancipazionismo e del femminismo; era necessario liberarsi da un’immagine mediata dallo sguardo maschile per avere una personalità libera, anzi per essere persone; era altresì necessario recuperare un autonomo rapporto fra donne, espresso nel neo femminismo con il termine fino ad allora inesistente di sorellanza, che non indicava più il solo rapporto biologico familiare, ma un rapporto politico di condivisione. Poco sondato oggi è il rapporto fra donne dopo la scomparsa dal lessico comune della parola sorellanza, che devo spiegare ai/lle studenti se mi capita di usarla nelle lezioni. Personalmente ritengo però che con il femminismo si sia aperta per la coscienza femminile la possibilità dichiarata di approfondimento di una misoginia femminile; se non altro perché al dna del neo femminismo apparteneva la pratica dichiarata del partire da sé, ognuna con le proprie esperienze, e il rifiuto del non detto.»


continua a leggere su vitaminevaganti.com

https://vitaminevaganti.com/2020/05/30/donne-socialiste-tra-ottocento-e-novecento-intervista-a-fiorenza-taricone/ 



LIVIA CAPASSO

L'ARTE RACCONTA LE DONNE CONTRO IL COVID

in Atti del seminario nazionale "Le donne al tempo del covid" promosso da Fildis Federazione Donne Laureate Diplomate Istituti d'Istruzione Superiore
presidente Mariella Ubbriaco  -  in streaming  6 dicembre 2020


Le epidemie, da Boccaccio a Manzoni, a Camus, non hanno mai fermato l’arte e la creatività, anzi sono stati periodi fecondi, soprattutto per il bisogno di tenere a freno la paura, originata dall’invisibilità del nemico da combattere. L’arte è terapeutica, è medicina, condividendo emozioni e sentimenti, aiuta a riflettere, a comprendere meglio.

Se da un lato la pandemia ha accelerato le differenze di genere, e lo smart working non ha di certo agevolato le donne, che si sono ritrovate un sovraccarico di compiti, la sensibilità dell’arte vi ha posto riparo, sottolineando l’operato di tante che tra le mura domestiche hanno continuato ad aver cura della famiglia e, esponendosi e rischiando il contagio ogni giorno, ad assicurare al paese risorse e servizi.


E a queste donne il fumettista italiano Milo Manara (Luson, 1945) ha voluto dedicare il suo ultimo lavoro: ricercatrici, mediche, infermiere, operatrici delle ambulanze, ma anche poliziotte, postine, farmaciste, veterinarie, cassiere, rider, operatrici ecologiche, lavoratrici agricole. Questa volta l’artista, abituato a celebrare la bellezza e la seduzione dei suoi personaggi femminili, ha scelto di celebrarne le virtù, esaltandone la forza, la determinazione, il senso del sacrificio. Lockdown Heroes raccoglie 25 illustrazioni realizzate durante l'emergenza, pubblicate da Feltrinelli Comics. Oltre alle immagini delle eroine del Covid, Manara ha anche realizzato un breve cortometraggio, che mostra una dottoressa, sfinita per la fatica, accasciarsi per terra, dopo le lunghe ore passate in corsia; a un tratto, la consapevolezza che non può mollare la spinge a rialzarsi e a continuare la sua battaglia contro l’invisibile virus.

Parte del ricavato delle vendite di Lockdown Heroes è devoluto in beneficenza per tre ospedali, di Milano, di Padova e di Napoli.

«Non saprei dire esattamente come ho cominciato questa serie di piccoli acquerelli - racconta Milo Manara - Lo sbigottimento, l’angoscia e l’incredulità per la catastrofe che si stava profilando mi rendeva impossibile continuare il mio lavoro di routine, impossibile trovare l'attenzione e la serenità necessarie….  Dato che è stata una dottoressa anestesista la prima a diagnosticare la presenza del virus, mi è sembrato logico declinare l’immagine al femminile, era un dovere per me celebrare il coraggio, l'abnegazione e la forza di quelle donne esauste, poco protette, ma che nonostante tutto restavano al proprio posto, compiendo il proprio dovere, pur essendo perfettamente consapevoli del rischio che correvano….dopo più di cinquanta anni passati a celebrare la bellezza e la seduzione delle donne, è stato del tutto naturale celebrarne anche le altre virtù… Oltre gli operatori sanitari c'erano molte altre persone che hanno continuato a svolgere il proprio lavoro, nell'interesse di tutti, esponendosi al pericolo di contagio: cassiere dei supermercati, addette alle pulizie negli ospedali e fuori, le forze dell’ordine, le ho disegnate una ad una, semplicemente per ringraziarle e, forse, anche un po’ sperando che ci ricorderemo di loro, quando tutto sarà finito»


Lady Be è il nome d’arte di Letizia Lanzarotti, artista italiana (Rho 1990), inventrice della tecnica del mosaico contemporaneo, costituito da oggetti di plastica di recupero, giocattoli, bigiotteria e altri manufatti d'uso. Chiuse le sale espositive, ha pubblicato sul suo profilo Instagram, , due nuove opere sul tema del Coronavirus: Corona Jesus e Infermiera con l’orecchino di perla. Quest’ultima trasforma la Ragazza col turbante di Johannes Vermeer nell’eroina che combatte in prima linea contro il virus per salvare vite umane.

Corona Jesus raffigura il volto sofferente di Gesù Cristo che, al posto della corona di spine, ha sulla testa la rappresentazione al microscopio del Covid-19. Gesù, che già una volta si è sacrificato per l’umanità, ha preso su di sé il flagello che sta mietendo tante vittime nel mondo intero.

Anche la Street Art, dagli Usa alla Bolivia, dall’Irlanda alla Palestina, dal Brasile alla Cina, non è stata a guardare e ha riempito i muri delle città con immagini che ci invitano a riflettere.

I soggetti privilegiati dei nuovi graffiti sono mascherine, amuchina, disinfettanti, l’immagine stilizzata del virus e l’hashtag #stayathome, che si rincorrono in un vortice di forme e colori, apparsi improvvisamente in tutto il mondo.

Un’enorme mascherina azzurra è apparsa nella notte tra il 21 e il 22 aprile 2020 sul volto della ragazza, opera di Banksy che nel 2014 aveva rivisitato La ragazza con l’orecchino di perla di Johannes Vermeer, con un murale sulla facciata di un edificio in Hanover Place, a Bristol, città natale dell’artista. Con The Girl with the Pierced Eardrum (La ragazza con un piercing al timpano) Banksy aveva sostituito l’intero lobo della ragazza con la centralina dell’allarme sul muro del palazzo. Non si sa se Banksy, la cui identità è un segreto gelosamente custodito, o qualcun altro abbia attaccato la maschera in tessuto alla ragazza dipinta.

Certo è che il murale appena adornato non è apparso sulla pagina Instagram di Banksy dove di solito pubblica le immagini del suo lavoro.

Sono i medici e gli operatori sanitari gli eroi dei nostri tempi, o meglio supereroi, come ci ricorda questo murales, Super Nurse, apparso su un muro di Amsterdam di Fake, artista anonimo che ad Amsterdam vive e lavora. Il logo di Superman, impresso sulla mascherina di questa infemiera, rimanda allo sforzo eroico compiuto dal personale degli ospedali. Lo sguardo della donna è fermo, punta lontano ed esprime speranza. La sua postura è solida, fiera, come quella di chi è chiamata a svolgere un compito forse più grande di lei, ma preferisce andare incontro al destino piuttosto che tirarsi indietro.

Un’altra infermiera su un muro a Pontefract, nel nord dell'Inghilterra, ricorda agli inglesi quali sforzi titanici stiano compiendo i medici e il personale sanitario impegnato a combattere la pandemia. E così nel logo del servizio sanitario inglese (National Health Service o NHS) la S finale è sostituita col  celebre logo di Superman, il supereroe dei fumetti.

Anche la Vergine Maria indossa una maschera e tiene in mano il coronavirus su un muro a Madrid.

Jules Muck è un artista di graffiti e murales con sede a Venice, California. Inglese di nascita, viveva e lavorava a Manhattan, quando Lady Pink la trovò a dipingere un tetto illegalmente e le offrì un apprendistato. La tutela di Pink ha consentito a Muck. Nel 2008, Mucksi è trasferita a Venice, in California. A Wynwood, Miami, Muck Rock, suo nome d’arte,  ha dipinto un murale con Anna Nicole Smith, modella e attrice di Hollywood, nota per la sua somiglianza con Marylin Monroe, con indosso la maschera della paura. Anna è stata trovata morta nel 2007 in una stanza di un hotel in Florida, vittima forse di un abuso di farmaci.

A New York Jilly Ballistic e Pleu Medalist tappezzano il Lower East di Manhattan con la campagna Spread no Virus, Non diffondere il virus, in aperta polemica con il Presidente Donald Trump che sembra aver preso alla leggera il problema. Il presidente infatti  ha più volte minimizzato gli effetti ed i pericoli del covid-19, quasi ridicolizzando le misure drastiche adottate dagli altri paesi.

A Barcellona spunta il murale di TvBoy che ha rivisitato in chiave attuale il dipinto per eccellenza di tutta la storia dell’arte, Monna Lisa, immortalata con tanto di mascherina e di cellulare d’ordinanza.

L'artista Rana Ramlawi lavora sulle sue sculture di sabbia con un messaggio che recita Stay Home nel cortile della sua casa di Gaza City. La giovane artista ha raccontato in un’intervista che non ha potuto studiare, ma la sua perseveranza e determinazione l’hanno spinta a sviluppare il talento che l’accompagna fin dall’infanzia. «I colori sono troppo costosi e spesso non si trovano, così ho iniziato a creare le sculture. La sabbia è il materiale che si trova in abbondanza nella Striscia di Gaza, non finirà mai. Anche gli attrezzi che uso li costruisco da sola e li perfeziono in continuazione».

Susie Hamilton, nata nel 1950, è una pittrice britannica che vive e lavora a Londra. Lavora con schizzi di figure, rudimentali, entità antropomorfiche, macchie fluide che prendono vita grazie al suo deciso e agile pennello, L’artista negli ultimi tempi ha prodotto una serie di immagini di medici e personale sanitario in camice, con visiera, cappucci e maschere che operano su pazienti affetti da coronavirus. Peter Collins, uno dei suoi collezionisti, consulente epatologo e vicedirettore degli Ospedali universitari di Bristol e Weston, le ha fornito le foto del suo ospedale, da cui Susie ha tratto ispirazione, utilizzando anche filmati presi online e dalla televisione. 

Sono acrilici su carta da cui emerge tutta lo spavento che l’artista prova davanti a questa pandemia.

Il contrasto tra i medici forniti di tutte attrezzature tecnologiche, e il disordine e la confusione degli ambienti in cui operano sottolinea l’impotenza dei pazienti ridotti a una forma oscura e disordinata tra tubi e fili, su cui i medici incombono. E i dottori appaiono a volte come le creature mostruose di Hieronymus Bosch, mentre altri hanno una qualità angelica con la luce che risplende da loro o li investe.



            TANO D'AMICO


            I RICORDI DI COSA SONO FATTI

            Tempo e luce di un fotografo di strada
           
Collana Postwords Edizioni Postcart 2012


Share by: